mercoledì 30 ottobre 2013

Kitchen Corner


Apro il frigo, apro anche la cassetta del frigo dove tengo le verdure, almeno quando interpreto la parte dell'ordinato. Il panorama risulta alquanto triste: 3 peperoni, cromaticamente assortiti sì, ma mosci. Parecchio. Tuttavia, ancora commestibili. Vanno cucinati subito! Assolutamente. Ne va del rispetto alle regole-cardine dell'economia domestica: parlo della massima "non buttare nulla", chiaro. Pensando e ripensando, nel cestino di plasticaccia celeste, in genere ricolmo di bucce di aglio, dovrebbe essere avanzato, piuttosto in profondità, uno scalogno. Infatti. Mi accingo pertanto a pulire i peperoni, mondandoli del sudicio, delle zone troppo mollicce e dei semi. Taglio anche lo scalogno, ma grossolano, se no si brucia prima che i protagonisti del siparietto, i peperoni di cui sopra, siano abbastanza cotti.
Distrazione (difficile concentrarsi in questo periodo): sbalordisco l'ennesima volta per la capacità dell'occhio di muoversi con ampiezza angolare di circa 135 gradi - mi pare, lo lessi su un vecchissimo Focus in sala d'aspetto dalla dentista triste, divorziata credo. O forse era Airone? - e, insomma... Un attimo, riprendo il filo. Sbalordisco, dicevo, e mi accorgo di un pomodoro in attesa di essere richiamato all'altro mondo dall'Altissimo - a "renderla" diceva Alex di Arancia Meccanica - e decido che nell'orgia di sapori e di umori stantii finirà forzatamente anche lui.
Le premesse per una pietanza patetica ci sono tutte: nessuna struttura di sapori, nessuna organizzazione, sembrano quei sugherelli borghesi stagnosi che si incontrano nelle ville e, un po' a casaccio, si buttano l'uno addosso all'altro, "a pesce" direbbe la cicciona Dolores di Mai dire gol. Qui come là si tratta di cose che, ad un certo punto, devono essere fatte. Butto anche due pizzichi di curcuma e un peperoncino secco, privato della capocchia, della punta e dei semi, perché è lì che si concentra la capsaicina o come caspita si chiama. Mezzo bicchiere d'acqua per cuocere meglio. Ripensandoci, solo ora purtroppo, avrei potuto puntare sull'agrodolce. Lo faccio lo stesso, consapevole di essere in ritardo ormai. Chissene. Sale, zucchero, aceto... origano. Ormai ci sono, ho le spezie in mano, sarebbe ipocrita decidere di tirarsi indietro fingendosi integerrimi, come quando lavo i piatti e arriva lo stronzo di turno che appoggia un bicchiere sporco in più; si approfitta, lo/a stronzo/a, della tua pigrizia a farne una questione.
Emerge l'orgoglio sopito: meglio cucinare pure qualcos'altro, tanto per pararsi il culo nel caso l'esito dei peperoni si dimostrasse vergognoso. Torno repente al cassetto della verdura e, spulciando, coperto dalla roba recente e fresca, trovo un finocchio solertemente avvolto da un foglio d'alluminio (di sicuro io non sono stato) e diversi gambi di sedano. Decido di saltarli con aglio tritatissimo, un po' di pepe - perché no? -, visto anche che mi garba usare il trita-pepe; è come avere, non so, il potere di cambiare forma alle cose. E quella rucola in busta avanzata serve a dare l'aspetto verde. Peccato non avere in casa un cucchiaino di senape. Nell'illusione di apportare un tocco di brio, aggiungo dei semi (lacrime) di sesamo, anche per ottenere sotto i denti una percezione di consistenze particolari. Rosmarino, gocce di aceto balsamico per caramellare e via. Accendo due fornelli e faccio saltare le pietanze, non troppo. Appena bruciacchiate fuori, ancora croccanti dentro. Assaggio: più che buone! Le userò per condire degli hot-dog. La rucola ricorda le erbette amare che crescono spontanee nei campi. I peperoni, invece, credo che li preparerò di nuovo così, per riempire una torta rustica magari. Provatele anche voi!

sabato 28 settembre 2013

Boldrake novella super-eroina



Boldrini: nuovo sex-symbol "roscio"? Secondo alcuni, le somiglianze somatiche ricordano una Tera Patrick in versione istituzionalizzata. Già benemerita per l'impegno profuso in questioni umanitarie, stavolta veste i panni del super-eroe. Pardon, super-eroina. Novella "Boldrake", infatti, si pre-occupa davvero di tutto!
Beninteso, dopo la sparatoria di piazza Colonna io nel mio piccolo condivisi il suo invito ad una riflessione comune, rigorosamente giustapposta alla condanna del gesto. A chi si lacerava le vesti rispondevo che comprendere non avrebbe significato giustificare, e che una riflessione in più non fa mai male. Del resto, ho sempre pensato che evitare a tutti i costi l'approfondimento rappresentasse una difesa dell'inconscio.
Oggi la Presidentessa della Camera storce il naso a pubblicità figlie di un retaggio culturale - pare - tutto nostrano. Inutile negare che persino alcune promozioni di generi solo femminili consiglino di farsi più belle per il proprio uomo. Probabilmente è ancora vero che i custodi del portafogli portano in maggioranza i pantaloni. Ugualmente, per colpa della crisi, alcune donne disoccupate possono arrivare(/tornare) alla convinzione che fare le casalinghe sia per loro più "naturale".
Lo ammetto: parecchi uomini, pur di non ammettere che in diversi settori le pari opportunità (iniziali!) dei generi non sono ancora all'ordine del giorno, preferiscono improvvisarsi paladini non convinti di un liberalismo a corrente alternata. Tuttavia, considerare insindacabilmente disdicevole il ritratto di un mulino certo ormai canuto significa pensare ad una massa amorfa di realtà indiffderenti, a dispetto delle individualità e delle preferenze, magari consapevoli e non indotte. I (dis-/)valori perpetrati dalle pubblicità sono semplicemente funzionali alle vendite e prospettare una "rivoluzione culturale" in quel senso odora di Stato etico. Condannare un costume che non violi la legge è mera retorica. Così come è retorica la ragazza bella e stupidina o la ragazza brutta e seria oppure, buon'ultima (e questa va molto di moda), la ragazza bella a cui basti esprimere un minimo barlume di saggezza per suscitare l'apprezzamento finto-moderno "però, bella e pure intelligente!" 
Arriveremo(/torneremo) a canonizzare anche le posizioni più "opportune" e "meno maschilistiche" per fare all'amore?

giovedì 28 marzo 2013

Nel Lazio si rivota!


ROMA. Gli elettori laziali saranno costretti a tornare alle urne per rinnovare il consiglio della loro regione. È quanto si vocifera lungo i corridoi de La Pisana. Il motivo: un ricorso presentato al Tar da Radicali, Verdi, Socialisti Riformisti e Movimento Cittadini e Lavoratori. Tale ricorso sostiene che la spending review del governo Monti, con cui il consiglio regionale è passato da 70 a 50 componenti, sia stata accolta dalla giunta Polverini secondo procedure irregolari. All’epoca la giunta Polverini, in procinto di rassegnare le dimissioni, si limitò ad emanare un decreto, senza tuttavia apportare modifiche alla legge elettorale né lo statuto, come invece avrebbe dovuto. Prima delle elezioni, i succitati ricorrenti chiesero al Tar una sospensiva del voto, ma il tribunale non l’accolse. Ciò nonostante, il giudice non respinse il ricorso e, anzi, lo ritenne “meritevole di attenta discussione”, rimandando l’udienza al 7 marzo successivo. Il 7 marzo, con le urne ancora calde, si è preferito non entrare nel merito della questione; piuttosto, è stato esaminato se i ricorrenti avessero legittimo titolo per portare la questione in giudizio. Attualmente, tutto è rinviato al 18 aprile, data in cui il Tar dovrà pronunciarsi definitivamente o rimandare la decisione alla Corte Costituzionale. Nel qual caso, i tempi si dilateranno ancora. 


Ultima puntata di “S’è fatta notte”

Terminata la stagione del programma firmato da Maurizio Costanzo ed Enrico Vaime


“Ha da passà ‘a nuttata!” 
Così si faceva forza Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”, con lo sguardo di chi abbia un lungo percorso davanti a sé, ma riesca a scorgere in lontananza la meta di un nuovo giorno. “S’è fatta notte”, invece, naviga su una filosofia differente; anzi, si può dire, senza negatività alcuna, che è ormai approdato al lido. Qui l’atmosfera è rilassata, non tende a nulla e sa rifuggire la nostalgia. Il tramonto anagrafico – non cerebrale! – di Costanzo e Vaime è da essi vissuto con autoironia e un che di grottesco. Già compagni di sconfitta arteriosclerosi in “Italia mia. Esercizi di memoria”, sono loro i veri ospiti di se stessi. Salvo eccezioni (l’egoico Vittorio Sgarbi, per esempio), l’ospite di turno, in fondo, cambia poco l’assetto del programma: si tratta ogni volta di persona arcinota, della quale noi spettatori presumiamo di conoscere lo spirito, vita-morte-e-miracoli. 
“Sor Quinto Potere”, la silhouette di uno scivolo, adagiato a mo’ di chaise longue su una volgare seggiola da bar, ci fa capire che abbiamo torto a voler cambiare canale. In effetti, ci si appassiona sempre, nella convinzione di aver appreso qualche novità. Trattasi esclusivamente di fallace percezione. Tuttavia, la televisione è questo: una sinestesia che inganna l’occhio e l’orecchio (sempre squillanti o caratterizzate le voci degli ospiti), dove 0 + 0 + 0 + 0 fa sempre qualcosa, o almeno così sembra. E va saputa fare bene questa magia, occorrono metodo e professionalità. Non importa se si è anziani, se le camicie collo-fit rimangono un vago ricordo o se Enrico Vaime, dismessi i panni di puntuto opinionista balbuziente di La7 e improvvisato cameriere, ha fastidio ad indossare il papillon richiesto dalla divisa. Semplice la pantomima dell’esercizio in chiusura: le note di Gino Paoli (già ospitato, difatti), l’insegna al neon dei tempi che furono, una bicicletta modello “Graziella” sullo sfondo, le pastarelle rinsecchite. Poco importa se Costanzo si esprime a morsi e bocconi. Chissenefrega se, anziché parlare in maniera intelligibile, egli piuttosto ricorda i versi emessi dall’animale di “W la foca”, l’ultimo film degli anni ’70, però dell’82 (regia di Nando Cicero, sosia di Vaime). Fatalità, in quella pellicola Franco Bracardi (fratello di Giorgio), nel ruolo di un improponibile clochard, domandava a Lory Del Santo, bàlia della succitata foca baffuta: “ma chi è? Er fijo de Costanzo?” Poco dopo il senzatetto sarebbe stato promosso ai gradi di pianista/pinguino, di pastello vestito, al Parioli, per chiosare coi tasti bianchi e neri il Morfeo dei coniugi italiani. Ah, la stessa Lory Del Santo è stata recente ospite di “S’è fatta notte”. 
Oggi Costanzo, speleologo della narice, formula domande ricorrenti, con le “i”: “una tua Intemperanza? Una tua Insofferenza?” Talvolta, addirittura, si limita a fornire un intuibile abbrivio a chi gli stia di fronte. Stancamente (degno della mezzanotte di sabato in cui va in onda), viene fatta la sola cosa invero nelle forze dei conduttori. Non di meno, a farlo sono due tra le poche persone in grado di suscitare un discreto interesse di audience senza che la cosa appaia studiata. Dobbiamo immaginare, infine, la spettatrice in incipiente menopausa, che ricorda Sandra Milo quando ancora frequentava Fellini, che la udì gridare disperata “Ciro! Ciro!” e che la vide senza trucco né inganno all’Isola dei famosi. Una spettatrice alla ricerca di quiete - mica noia! -, praticamente dello stesso silenzio che si cerca nella lettura di un libro già letto: che sollevi dallo sforzo di una totale e brutale novità, ma che regali una sfumatura inaspettata, ancorché, paradossalmente, anelata. Nel compiacente riconoscimento tautologico del confort adatto a stemperare la buriana di una crisi che non finisce più. 


martedì 18 settembre 2012

Una fallace katastrophé rivoluzionaria tra sesso orale e pasta con le sarde


Non mi sembra vero! Proprio lei, e nella sua macchina! In effetti ormai parecchi genitori sono disposti a concedere alle figlie femmine l’automezzo per le uscite serotine. Pensano, gli ingenui, che così facendo le valve delle loro ostrichette correranno meno pericoli, perché non dipenderanno dal passaggio degli altri e non rischieranno di trovarsi accanto a degli sconosciuti. Oppure neanche questo: forse semplicemente non intendono rinunciare ad esporre, in bella vista sopra il fuoco del camino, una targa dorata con su scritto “modernità”.
Quando cominciai a lavorare in ditta, lei manco mi degnò d’un saluto (e io leccavo la sarda). Era troppo presa, la rizza-cazzi, a dimostrarsi impeccabile agli occhi del padre, l’ingegnere, tanto da dover scappare sempre a casa per preparare l’esame da architetto. Solo quando lo superò s’infilò nelle nostre giornate. Di geometri eravamo tre, tutti e tre chini dalla mattina alla sera, senza ricevere mai alcun apprezzamento per le nostre proposte. Mentre lei, lei bastava che dicesse la minima banalità, e tutti commentavano: Minchia, che ragazza: bedda e pure intelligGente!, non tanto perché fosse la figlia del capo, ma piuttosto per assecondare un costume molto in voga. Mi riferisco al vizio diffuso di considerare geniali quegli esemplari di femmina, il cui unico pregio sia la capacità di articolare fonemi elementari. Basta poco, a loro. Pure nei confronti delle bruttine, poi, c’è un femminismo di ritorno: qualche piccola affermazione, una considerazione appena inconsueta, un flebile accenno della loro esistenza ed ecco il canonico Però, non sarà Miss Italia, comunque il cervello le funziona! Poco importa, mi godo il momento. Ora il bastone del comando ce l’ho io!
E lei è qui, chinata su di me, prostrata al mio piacere, a sucari. Le mie natiche sono a diretto contatto con la tessitura elettrica e pruriginosa dell’incavo del sedile. Quasi non vedo l’ora che sia tutto finito, almeno potrò correre a raccontarlo agli altri: sai come rimarranno... Con discrezione, ovvio - al posto ci tengo! -, basterà solo mandare alcuni segnali in codice e preoccuparsi di selezionare le orecchie. Infangherò il nome della brava ragazza, lo so. Certo, se la stessa cosa capitasse a mia sorella, difficilmente potrei farmene una ragione; peraltro, da queste parti una ragazzina ha poche possibilità di non incappare in qualche bifolco, ignorantone arrapato e privo di qualsivoglia tatto convenga in certi casi.
Guardo giù: è sempre lì. La questione della nomea non sembra minimamente preoccuparla. Né, tantomeno, la preoccupa il fatto che io possa, da un momento all’altro, lasciarmi andare ad uno scatto d’ira, un gesto inconsulto (in fondo, siamo in aperta campagna e potrei anche malmenarla, con tutta tranquillità). Invece lei sembra avere fiducia nella società, nelle persone. E ci credo: ce l’avrei anch’io se non avessi mai avuto problemi! Fatto sta che non sembra interessarle neppure la possibilità che io stia spaziando coi miei pensieri, magari rendendo oggetto della mia eccitazione altre ragazze. Non teme niente, anzi, mi sta usando. In realtà è lei che usa me. E io, dalla mia, non potrei disporre che – misera consolazione, in fin dei conti – dell’arma del pubblico dileggio. Arma, oggi, praticamente neutralizzata, perché trova terreno fertile solo tra chi non ha nient’altro, e di queste persone, del resto, non importa a nessuno. Non come raccontava zio Tonino (pardon, prozio) nei suoi aneddoti miticamente iperbolici. – Quando una era bollata come buttana – diceva, immerso dentro l’atmosfera paglierina del ricordo, il vento caldo che ululava sordamente in sottofondo – non l'avvicinava più anima viva. La piazza era una distesa di enormi, rotonde ghiaie nere, e sotto queste coppole unisessuate i pettegolezzi: si accartocciavano tra i ghigni e quanto più erano improbabili tanto più venivano presi per buoni. –
Mi piacevano i racconti dello zio, uomo navigato, che aveva aspettato da grande a sposarsi, con Agnese, il mio sogno erotico più ricorrente in età pre-puberale. Zia Agnese era sempre composta, non dava mai confidenza a nessuno, ma aveva il difetto di possedere un corpo, come dire, “poco credibile”. Nel senso che le sue curve non si addicevano alla morigeratezza che nessuno, in paese, aveva mai osato mettere in discussione. Sulla sua serietà, infatti, non c’era ombra di dubbio. L’unico baffo che macchiava tale Gioconda era proprio il marito, zio Tonino. Era difficile, infatti, per me non immaginare a quali acrobazie non si concedesse Agnese, condividendo il suo talamo con una persona tanto estroversa e passionale. Ha rappresentato, pertanto, la zia Agnese, una contraddizione vivente per lungo tempo, un ossimoro così forte che impediva alle mie perversioni di ignorarla.
- Che labbra! – sussurro, ma con aria decisa, per manifestare in forma verbale la mia partecipazione virile. Lei risponde (anzi, interviene) con un sorriso compiaciuto. Ciò nonostante, ho la vaga sensazione che non sia io, cioè la mia persona, con le mie specificità, ad interessarla. Forse non sono che un mezzo per arricchire il suo bagaglio di conoscenze, tanto che lei, un giorno non lontano, potrà veleggiare sicura di sé, fregandosene di tutto e di tutti. Probabilmente aveva ragione zio Tonino quando mi elargiva le sue perle di saggezza, di solito spinando i filetti di sardine: - Devi sapere, nipòte beddu, che la pasta chi sardi come Dio comanda si può fare solo da marzo a settembre. D’inverno, infatti, sarde fresche e finucchiazzu selvatico non si trovano. Così com’è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo, è pure vero che ogni piatto ha la propria stagione. –
Si vantava delle sue doti culinarie, zio Tonino, e secondo lui chiunque si cimentasse nella ricetta in questione sbagliava, anche solo nei particolari.
Talìa, nipòte beddu, bisogna sciacquare le barbette du’ finucchiazzu… – e io guardavo la zia che le scuoteva, quelle barbette, perlate di umido, e le adagiava in alto, su un panno, stanche, ad asciugare.
– Talìa, nipòte beddu, i pinoli alcuni li buttano così, come vengono. Io, invece, preferisco tostarli un po’, per la consistenza e perché si esalta il sapòre. –
Diceva bene: quante volte ho goduto a trovarmi sul palato quei pinoli turgidi e appuntiti come i capezzoli che intuivo sotto i vestiti della zia, seduta sempre accanto a me. Godevo a scalfirne la corazza farinosa e, in fondo, accessibile, con il filo dei premolari potenti, che claccavano tra antagonistiserrando a scatto come i bottoni automatici di un giacchetto da vento. Me ne veniva un piacevole senso di controllo.
– Serve olio, buono, nella salsa – (zio Tonino abbracciava la variante agrigentina). - La pasta non deve mai essere stopposa, altrimenti rimane la bocca asciutta, shchifòsa, come se – e qui abbassava la voce per la zia, che sospirava rassegnata – ‘na picciotta ti mastubba - sentenziava con intenti scandalizzanti - e non sputazza sulla mano. –
Una taliata fulminante, e mi rendo conto che manca poco alla fine. Pare che lei lo sappia, perché alterna con perizia ciò che evidentemente mi aggrada da ciò che - veggenza incredibile! - mi lascia indifferente. Un po’ come quando addento i mezzi ziti, che mi permettono di prendere una pausa dal gusto forte delle sarde e del finocchietto, tanto da invitarmi a ricominciare di nuovo con il ricco, godurioso condimento.
Rumori barbari e squallidi di marmitta scassata, in lontananza, scandiscono il tutto. Sale su per le narici un odore di pinoli tostati, anzi, parlerei piuttosto di aroma di castagne lesse. La mia pelle è liscia e rigonfia come l’uva passolina lasciata a bagno, rossa come ‘a cipuddazza, il pesce cucinato magistralmente dalla defunta zia Agnese. Premo con convinzione la testa corvina, forse troppa convinzione, forse ora dovrei accarezzarla se no magari lei… no, invece le piace – buttanazza! -. Sul viso le luccicano brillantini di un trucco sbavato. Tintinnano come le uova di lompo che assaggiai per la prima volta all’inaugurazione della nuova succursale della ditta. A quella festa, in uno slancio di ostentata democrazia, erano presenti tutte le maestranze. Se suo padre fosse qua…
Ancora un attimo, ecco, eccomi…
Refrigerante. Traspirante, la pelle ventila sé stessa, di continuo. Una cosa simile mi capitò quando, facendo la doccia, per curiosità mi strofinai addosso con energia l’enorme pietra pomice trovata sul mare. In compenso, ora i piedi sono gelati, sudati e insensibili. Sento però che il sangue, poco fa affluito di colpo dove serviva, sta mano a mano tornando, giustamente, verso la periferia del mio corpo (reminiscenze di biologia). Lei si ricompone e si sistema sopra di me, recitando la parte della ragazza perbene, che vuole coccole e intimità, che l’ha fatto per sentimento o, peggio ancora, perché in fondo non c’è niente di male. Bene, allora recito pure io, e fingo di stare al gioco. Tanto domani si gioca a un altro gioco. Il gioco delle parti. Il gioco dei pupi.