martedì 18 settembre 2012

Una fallace katastrophé rivoluzionaria tra sesso orale e pasta con le sarde


Non mi sembra vero! Proprio lei, e nella sua macchina! In effetti ormai parecchi genitori sono disposti a concedere alle figlie femmine l’automezzo per le uscite serotine. Pensano, gli ingenui, che così facendo le valve delle loro ostrichette correranno meno pericoli, perché non dipenderanno dal passaggio degli altri e non rischieranno di trovarsi accanto a degli sconosciuti. Oppure neanche questo: forse semplicemente non intendono rinunciare ad esporre, in bella vista sopra il fuoco del camino, una targa dorata con su scritto “modernità”.
Quando cominciai a lavorare in ditta, lei manco mi degnò d’un saluto (e io leccavo la sarda). Era troppo presa, la rizza-cazzi, a dimostrarsi impeccabile agli occhi del padre, l’ingegnere, tanto da dover scappare sempre a casa per preparare l’esame da architetto. Solo quando lo superò s’infilò nelle nostre giornate. Di geometri eravamo tre, tutti e tre chini dalla mattina alla sera, senza ricevere mai alcun apprezzamento per le nostre proposte. Mentre lei, lei bastava che dicesse la minima banalità, e tutti commentavano: Minchia, che ragazza: bedda e pure intelligGente!, non tanto perché fosse la figlia del capo, ma piuttosto per assecondare un costume molto in voga. Mi riferisco al vizio diffuso di considerare geniali quegli esemplari di femmina, il cui unico pregio sia la capacità di articolare fonemi elementari. Basta poco, a loro. Pure nei confronti delle bruttine, poi, c’è un femminismo di ritorno: qualche piccola affermazione, una considerazione appena inconsueta, un flebile accenno della loro esistenza ed ecco il canonico Però, non sarà Miss Italia, comunque il cervello le funziona! Poco importa, mi godo il momento. Ora il bastone del comando ce l’ho io!
E lei è qui, chinata su di me, prostrata al mio piacere, a sucari. Le mie natiche sono a diretto contatto con la tessitura elettrica e pruriginosa dell’incavo del sedile. Quasi non vedo l’ora che sia tutto finito, almeno potrò correre a raccontarlo agli altri: sai come rimarranno... Con discrezione, ovvio - al posto ci tengo! -, basterà solo mandare alcuni segnali in codice e preoccuparsi di selezionare le orecchie. Infangherò il nome della brava ragazza, lo so. Certo, se la stessa cosa capitasse a mia sorella, difficilmente potrei farmene una ragione; peraltro, da queste parti una ragazzina ha poche possibilità di non incappare in qualche bifolco, ignorantone arrapato e privo di qualsivoglia tatto convenga in certi casi.
Guardo giù: è sempre lì. La questione della nomea non sembra minimamente preoccuparla. Né, tantomeno, la preoccupa il fatto che io possa, da un momento all’altro, lasciarmi andare ad uno scatto d’ira, un gesto inconsulto (in fondo, siamo in aperta campagna e potrei anche malmenarla, con tutta tranquillità). Invece lei sembra avere fiducia nella società, nelle persone. E ci credo: ce l’avrei anch’io se non avessi mai avuto problemi! Fatto sta che non sembra interessarle neppure la possibilità che io stia spaziando coi miei pensieri, magari rendendo oggetto della mia eccitazione altre ragazze. Non teme niente, anzi, mi sta usando. In realtà è lei che usa me. E io, dalla mia, non potrei disporre che – misera consolazione, in fin dei conti – dell’arma del pubblico dileggio. Arma, oggi, praticamente neutralizzata, perché trova terreno fertile solo tra chi non ha nient’altro, e di queste persone, del resto, non importa a nessuno. Non come raccontava zio Tonino (pardon, prozio) nei suoi aneddoti miticamente iperbolici. – Quando una era bollata come buttana – diceva, immerso dentro l’atmosfera paglierina del ricordo, il vento caldo che ululava sordamente in sottofondo – non l'avvicinava più anima viva. La piazza era una distesa di enormi, rotonde ghiaie nere, e sotto queste coppole unisessuate i pettegolezzi: si accartocciavano tra i ghigni e quanto più erano improbabili tanto più venivano presi per buoni. –
Mi piacevano i racconti dello zio, uomo navigato, che aveva aspettato da grande a sposarsi, con Agnese, il mio sogno erotico più ricorrente in età pre-puberale. Zia Agnese era sempre composta, non dava mai confidenza a nessuno, ma aveva il difetto di possedere un corpo, come dire, “poco credibile”. Nel senso che le sue curve non si addicevano alla morigeratezza che nessuno, in paese, aveva mai osato mettere in discussione. Sulla sua serietà, infatti, non c’era ombra di dubbio. L’unico baffo che macchiava tale Gioconda era proprio il marito, zio Tonino. Era difficile, infatti, per me non immaginare a quali acrobazie non si concedesse Agnese, condividendo il suo talamo con una persona tanto estroversa e passionale. Ha rappresentato, pertanto, la zia Agnese, una contraddizione vivente per lungo tempo, un ossimoro così forte che impediva alle mie perversioni di ignorarla.
- Che labbra! – sussurro, ma con aria decisa, per manifestare in forma verbale la mia partecipazione virile. Lei risponde (anzi, interviene) con un sorriso compiaciuto. Ciò nonostante, ho la vaga sensazione che non sia io, cioè la mia persona, con le mie specificità, ad interessarla. Forse non sono che un mezzo per arricchire il suo bagaglio di conoscenze, tanto che lei, un giorno non lontano, potrà veleggiare sicura di sé, fregandosene di tutto e di tutti. Probabilmente aveva ragione zio Tonino quando mi elargiva le sue perle di saggezza, di solito spinando i filetti di sardine: - Devi sapere, nipòte beddu, che la pasta chi sardi come Dio comanda si può fare solo da marzo a settembre. D’inverno, infatti, sarde fresche e finucchiazzu selvatico non si trovano. Così com’è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo, è pure vero che ogni piatto ha la propria stagione. –
Si vantava delle sue doti culinarie, zio Tonino, e secondo lui chiunque si cimentasse nella ricetta in questione sbagliava, anche solo nei particolari.
Talìa, nipòte beddu, bisogna sciacquare le barbette du’ finucchiazzu… – e io guardavo la zia che le scuoteva, quelle barbette, perlate di umido, e le adagiava in alto, su un panno, stanche, ad asciugare.
– Talìa, nipòte beddu, i pinoli alcuni li buttano così, come vengono. Io, invece, preferisco tostarli un po’, per la consistenza e perché si esalta il sapòre. –
Diceva bene: quante volte ho goduto a trovarmi sul palato quei pinoli turgidi e appuntiti come i capezzoli che intuivo sotto i vestiti della zia, seduta sempre accanto a me. Godevo a scalfirne la corazza farinosa e, in fondo, accessibile, con il filo dei premolari potenti, che claccavano tra antagonistiserrando a scatto come i bottoni automatici di un giacchetto da vento. Me ne veniva un piacevole senso di controllo.
– Serve olio, buono, nella salsa – (zio Tonino abbracciava la variante agrigentina). - La pasta non deve mai essere stopposa, altrimenti rimane la bocca asciutta, shchifòsa, come se – e qui abbassava la voce per la zia, che sospirava rassegnata – ‘na picciotta ti mastubba - sentenziava con intenti scandalizzanti - e non sputazza sulla mano. –
Una taliata fulminante, e mi rendo conto che manca poco alla fine. Pare che lei lo sappia, perché alterna con perizia ciò che evidentemente mi aggrada da ciò che - veggenza incredibile! - mi lascia indifferente. Un po’ come quando addento i mezzi ziti, che mi permettono di prendere una pausa dal gusto forte delle sarde e del finocchietto, tanto da invitarmi a ricominciare di nuovo con il ricco, godurioso condimento.
Rumori barbari e squallidi di marmitta scassata, in lontananza, scandiscono il tutto. Sale su per le narici un odore di pinoli tostati, anzi, parlerei piuttosto di aroma di castagne lesse. La mia pelle è liscia e rigonfia come l’uva passolina lasciata a bagno, rossa come ‘a cipuddazza, il pesce cucinato magistralmente dalla defunta zia Agnese. Premo con convinzione la testa corvina, forse troppa convinzione, forse ora dovrei accarezzarla se no magari lei… no, invece le piace – buttanazza! -. Sul viso le luccicano brillantini di un trucco sbavato. Tintinnano come le uova di lompo che assaggiai per la prima volta all’inaugurazione della nuova succursale della ditta. A quella festa, in uno slancio di ostentata democrazia, erano presenti tutte le maestranze. Se suo padre fosse qua…
Ancora un attimo, ecco, eccomi…
Refrigerante. Traspirante, la pelle ventila sé stessa, di continuo. Una cosa simile mi capitò quando, facendo la doccia, per curiosità mi strofinai addosso con energia l’enorme pietra pomice trovata sul mare. In compenso, ora i piedi sono gelati, sudati e insensibili. Sento però che il sangue, poco fa affluito di colpo dove serviva, sta mano a mano tornando, giustamente, verso la periferia del mio corpo (reminiscenze di biologia). Lei si ricompone e si sistema sopra di me, recitando la parte della ragazza perbene, che vuole coccole e intimità, che l’ha fatto per sentimento o, peggio ancora, perché in fondo non c’è niente di male. Bene, allora recito pure io, e fingo di stare al gioco. Tanto domani si gioca a un altro gioco. Il gioco delle parti. Il gioco dei pupi.

giovedì 13 settembre 2012

Elucubrazione precoce




Fra poco devo andare in palestra. Ho un orario preciso da rispettare, perché voglio cercare di incastrare il nuoto libero con un po’ di calistenica, e il tutto appena dopo aver digerito il pranzo. Devo ingannarlo, questo tempo, a maggior ragione contando che quelle fette di pane abbrustolito dimenticate sul tavolo hanno inequivocabilmente il culetto rivolto verso il barattolo di Nutella. Per quanto, ci sarebbero pure quelle piadine precotte nel frigo… il quale frigo – “Frizz”, per dirla con un libro della Tamaro – gocciola da quando ho stuzzicato il regolatore di temperatura. Speriamo che le piade non si sciupino, via!

Resistenza!

E poi non avrei voglia di mettermi a scaldarle sulla piastra. Sì, ok, nella mia vita ne ho mangiate anche di crudognole: sono più indigeste, ma sembra che facciano meno male. Come tutti i farinacei cotti, del resto. Una volta un dottore mi raccontò che la pastasciutta, ad esempio, è sempre meglio cuocerla un poco di meno invece di lasciarla scuocere. E non è solo questione di gusto: pare proprio che in cottura si liberi una sostanza – del cui nome so ‘na sega – che irrita le pareti gastriche.

Guardo l’orologio: ormai è questione di minuti; anzi, sarà meglio che mi sbrighi a preparare il borsone completo di tutto l’occorrente. Un giorno, poi, dovrò decidermi pure a pulirlo, ‘sto borsone, o a buttarlo. È che non so scindere l’odore di spogliatoio, muffa, sudore, vapore, fiori secchi?, dal concetto di attività fisica, aerobica o anaerobica che sia.

Ziip… Fatto! Non rimane che cercare altri diversivi. Un saltino su YouTube e vedo tra i video consigliati quelli con Daniele Luttazzi, accanto a quelli contro Daniele Luttazzi. Luttazzi plagiatore? Sembrerebbe. Alcuni sketch possono considerarsi omaggi, ma non viene ringraziato nisuno degli omaggiati. Picasso diceva che il vero genio arrubba… Penso si riferisse al fatto di vedere qualcosa di valore laddove il mediocre non ce lo vede, e quindi sottrarlo “alla zitta”. Uno difende Luttazzi, adducendo che contestualizza in salsa tricolore battute d’Oltreoceano. Ma, a parte costui, giovane promettente attore di teatro – presumo -, gli altri amici famosi del comico sono evasivi. Quando, infatti, qualcuno chiede loro pareri in merito, si trincerano più o meno elegantemente dietro la questione della categoria d’appartenenza, dietro il politically correct, dietro qualche “parabola” usata ad hoc… Insomma, non si esprimono. Benché trasudi la loro opinione, così come la loro solidarietà amicale. Comunque, chìssene.

Penso “chìssene” e mi viene in mente Kissinger. Penso Kissinger e mi viene in mente il maccartismo. Forse in relazione al diktat bulgaro, di cui il comico succitato fu vittima. Fatto sta che mi viene in mente pure quel film di Woody, “Il prestanome”, che tanto vorrei rivedere. E mi viene in mente anche “Basta che funzioni” (che storpio sempre con malefico piacere in “Basta che funziona”), dove il genio incompreso dice che se è vero che per vivere bene bisogna consumare frutta e verdura nove volte al giorno, beh… lui preferisce non vivere. È un po’ il mio caso, visto che oggi mi opprime l’obbligo morale di recarmi in palestra, perché oggi, proprio oggi, ho sbafato troppi carboidrati.

Bene, è l’ora.

Ma ecco che una piacevole melodia giunge ai miei padiglioni: un insieme di notte di sottofondo, a cadenza tanto regolare che in un primo momento mi era venuto naturale ignorarle. Riesco a immaginare il mondo se mi concedo di planare sulle sfumature dei perimetri poligonali disegnati dal rimbalzo acustico, come “Daredevil”.

Guardo fuori dalla finestra: piove. Yesss! Peraltro, potrei uscire con l’ombrello, ma mi accorgo che sarebbe spiacevole, sconsigliabile… - ah, il caro, vecchio, confortante buonsenso! -, perché piove “a vento”. L’invenzione cinese in questi casi non funge. Sì, perché l’ombrello in realtà è cinese, solo che da principio aveva le punte rivolte verso l’alto, non verso il basso. Praticamente i troiai che, non appena schizzichea (Wertmüller, do you remember?), i venditori ambulanti tirano fuori come assi dalle maniche (mica gli ombrelli di una volta, che costavano anche 100000 lire ma ti duravano un casino! direbbe nonno): goffamente leggiadri, come il parmigiano che, sudato, tenta di disturbare il meno possibile il crostino ospitale, durante quegli aperitivi in piedi che si fanno fuori dai ristoranti prima dei pranzi matrimoniali (ah, ecco dove l’ho sentita: da Brignano!). Che l’ombrello nacque in Cina lo appresi da piccolo ne “Il Milione” realizzato (non “fatto”) dalla Disney: copertina in cartoncino rigido, ganzo, quanto ci tenevo! Chissà dove sarà finito ora..?! Ricordo che fecero pure “I promessi paperi”, ma non ebbi mai modo di acquistarlo. Sarà stata, forse, la tensione nei confronti di quella mancanza, ad ispirarmi in seguito la tesi di laurea sul Manzoni? Cazzate.

Guardo di nuovo fuori e noto un natante nella pioggia che s’è permesso di privarmi di ogni scusa possibile per non sortire il muso fòra (latinorum, no grazie). Il bastardo si aggira nella mia coscienza con addosso un fastidiosamente pratico k-way, ma tipo mantella. Di quelli, insomma, che arrivano fino alle ginocchia, che usa anche Nanni Moretti quando viaggia in Vespa in “Aprile”. Tanto, però, - ora che ci penso – in casa ne sono sprovvisto.

Raschio il fondo della mia calotta cranica e – extrema ratio! – valuto di poter arrivare alla EGO (questo il nome della mia meta) correndo, come Forrest Gump, ma con meno convinzione. Potrei anche considerarlo una specie di pre-riscaldamento. Io sono fatto così, senza mezze misure: passo dal pensiero di non fare un beneamato a quello di strafare, un po’ come lo zio di “Amarcord” che raggiunge a nuoto, tanto per, la barca su cui i paesani avrebbero ammirato nottetempo l’imperiale Rex. Forse, però, il fugone non è una buona idea. Una volta, infatti, lessi su Focus che correndo sotto la pioggia ci si bagna di più, perché l’acqua cade pure sulle gambe, cosa che, invece, non si verifica se si procede con compostezza. Davero-davero, posso abbushcarmi un malanno?

Va beh, dai, a Roma quando piove viene improvvisa e dura poco. Basta attendere. E, nell’attesa, approssimarsi al barattolo di Nusscreme. È, questo, il vecchio nome del brown gold – cosa s’è perso Proust! -. Lo so perché mia nonna tiene ancora ago e filo dentro un vecchio barattolo, incredibilmente grande, nel quale, a detta sua (io vado a fiducia come un cieco col suo cane), si conservava la crema alle nocciole, separata da un foglio di carta-forno. Ed esternamente il recipiente reca il nome suddetto, criptico per molti itaGliani del-tempo-che-fu, ma estremamente esplicito per il consumatore crucco. Comunque eloquentemente indicativo, per ogni pargolo, di una luminosa palingenesi, tale da squarciare, col proprio segno, un intero pomeriggio o, forse, addirittura una settimana.

Il dado è tratto. Anzi, farò bene a sbrigarmi nel prepararla, questa maledetta piadina, se no rischio davvero che la pioggia finisca in quattro e quattr’otto.

Di ritorno da un’amnesia, mi accorgo di aver onorato il vizioso desco e lecco con scrupolo il coRtello (il bagno non lo posso più fare), più per completezza che per bramosia. Il soddisfacimento presto scema e non mi compiaccio: mi sono reso colpevole di aver assecondato, né più né meno, un bisogno di divertissement e di ritualità. Capisco la forza rassicurante delle tradizioni/superstizioni religiose.

Riavvolgo i pensieri e realizzo quanto stimoli esterni di esperienze indirette, compresi Lumière Bros. e tubo catodico, mi hanno (usiamo pure l’indicativo) contaminato considerazioni, opinioni, conclusioni. Oltre Locke. Ripenso ad una bibliotecaria, che quando ero piccolo mi disse che sua figlia leggeva tanti libri e per questo andava bene nei temi: - perché i libri aprono la mente – diceva, - invece la televisSione allena la memoria a breve termine, a scapito di quell’altra, quella a lungo termine. Per non parlare della prepotenza didascalica dell’ ipse dixit televisivo, per citare Pasolini. –

Magari era vero. Cioè, no, senz’altro era vero. Ed è vero. Come è vero, secondo me, che occorre giustapporre un ulteriore comandamento, un necessario secondo step (non Scamarcio), onde evitare di ridursi come Matt Damon in “Will Hunting”: dopo aver ingoiato, si deve metabolizzare. Si deve rielaborare, rendere unico nella forma, a prescindere dal contenuto. Perché è pur vero, come dice Benigni nel suo ultimo film quando finge di schiaffeggiare Brecht, che la cosa più banale del mondo è sforzarsi di essere originali; allo stesso modo, tuttavia, è bene ricordarsi di Carmelo Bene, quando vituperava (e lo fa tuttora) il prevedibile e assistenzialistico “citarsi addosso” tipico della rappresentazione borghese in senso lato.

Un accenno di traspirazione. Sarà la digestione che riprende. Quasi quasi accendo mezzo tosco, perché intero – dice – fa male.